Giulia Madiai → TAR
TAR
29 January 2024

Possiamo fidarci di ciò che ricordiamo?

“C’era una volta tanto tanto tempo fa, una città meravigliosa chiamata Tar. A quel tempo tutte le nostre città erano intatte, non si vedevano rovine, perché la guerra finale ancora non era cominciata. Quando iniziò la gran catastrofe sparirono tutte le città meno Tar. Tar esiste ancora. Se sai cercarla, la troverai. Quando arriverai a Tar, la gente ti porterà vino e soda e potrai giocare con un grammofono. Quando arriverai a Tar aiuterai nella vendemmia e raccoglierai gli scorpioni che si nascondono dietro la pietra bianca. Quando arriverai a Tar conoscerai l’eternità e vedrai l’uccello che ogni cento anni beve una goccia d’acqua dall’oceano. Quando arriverai a Tar comprenderai la vita, e sarai gatto e fenice e cigno e elefante e bambino e anziano e sarai solo e accompagnato e amerai e sarai amato e sarai qui e là e sarai il sigillo dei sigilli. E mentre ti avvicinerai al futuro.. Sentirai l’estasi, ti travolgerà e non ti abbandonerà più.” 

Fando y Lis di Alejandro Jodorowsky, 1968.

  

All’inizio del 2018, mossa dal più banale dei propositi, la ricerca della mia personale felicità, ho iniziato a mappare tutto il territorio circondante la casa in cui mi ero trasferita poco prima, chiedendomi ripetutamente se quella felicità potesse risiedere in un’azione, in un rituale, in un luogo. Passo dopo passo, prendendo coscienza della mia esistenza, per svariate volte ho rovesciato sul tavolo il contenuto della mia mente, ho preso il rosario delle esperienze vissute e l’ho sgranato, ancora e ancora. Per arrivare infine a comprendere che non facevo altro che confondere fra nebbia e moscerini.

Partendo dal concetto della città di Tar, luogo inesistente e irraggiungibile, e da cosa vuol dire cercarlo in maniera quasi ossessiva, ho confuso i miei percorsi con quelli di altri, ragionando sul concetto di traccia, sia come segno che fisicamente lasciamo al nostro passaggio, sia come traccia a livello cerebrale.

Non è poi così distante da Fando e Lis il signor William Thompson, paziente del neurologo Oliver Sacks che nel saggio L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello viene descritto come “costantemente disorientato, costantemente sull’orlo di abissi di amnesia”.  Thompson, che non ricorda nulla per più di qualche secondo, né del passato né del presente, si trova a confronto con un mondo che scompare e perde di significato in continuazione, ed essendo la sua una identità che svanisce, è costretto a ricercarsi in fantasie e chiacchiere di ogni sorta, in puri e semplici deliri, mettendo in scena realtà mai esistite e trovando la salvezza, momentanea, solo attraverso la confabulazione e il falso ricordo.

Del tutto incosciente di essere vittima di una frammentata stratificazione della memoria, di seguire una falsa traccia, vive e si perde lungo cammini e memorie non sue, con la disperata convinzione e l’assoluta certezza che siano vere. “La nostra memoria è la nostra coerenza, la nostra ragione, il nostro sentimento, persino il nostro agire”, così diceva Luis Buñel. 

Ma se ci soffermiamo a pensare che non serve poi così tanto per rendere il livello di registrazione più instabile, più incerto e più sfocato, viene da chiederci: possiamo fidarci di ciò che ricordiamo, oppure si possono mescolare i pezzi del puzzle talmente tanto da incasellare perfettamente pedine fino a poco prima  impossibili da unire?

Si possono invertire la fine e l’inizio di un’ esperienza?  Ma soprattutto, si possono creare ricordi tanto da arrivare a vivere vite mai vissute? Quante vite posso vivere io? Quante di queste sono mie e quante solo immaginate o appartenenti ad altri? Ricordiamo solo quello che viviamo in prima persona? E come?

Per anni ho vissuto cercando di posizionare ogni piccolo tassello al proprio posto all’interno del puzzle della mia mente, per arrendermi poi al rilassante concetto che niente in realtà possiede un’unica e precisa faccia, niente viene vissuto in modo univoco, niente ha una sola collocazione all’interno della mappa.

2018 – 2021